Donare per essere
Il nuovo motto degli alchimisti moderni



Antefatto:


    Il giovane alchimista accarezzò a lungo la testa dell’alano steso ai suoi piedi.
    Stava seduto ad una scrivania ingombra di libri antichi. Al centro era poggiata una preziosa scacchiera con base in alabastro e pezzi in oro ed argento. Spostava rapidamente i pezzi ricostruendo una partita.
    Aveva dita sottili e all’indice della mano destra portava un grosso anello sormontato da un serpente che si mordeva la coda, l’Ouroboros, attorcigliato a formare il simbolo dell’Infinito.
    Spostò un pezzo, un Alfiere, e lo portò nella casa e5. Era una splendida mossa innovativa nella variante Rosentreter del gambetto di Re: un doppio sacrificio di pezzo, Cavallo e Alfiere. Una perfetta trappola.
    Anche la sua trappola era scattata. Precisa come un meccanismo ad orologeria di alta precisione.
    Liza Moorcroft andava eliminata subito. Da semplice pedina innocua si era rivelata una avversaria troppo pericolosa.
    Che poteri aveva, realmente, la giovane Liza? Che sapere gli aveva trasmesso suo padre? Dove si nascondeva? Adesso doveva uscire allo scoperto, venire fuori dalla tana buia dove si era rintanata. Doveva farlo. Doveva rischiare, la posta in gioco era troppo alta. Doveva uscire allo scoperto per dare la caccia a tutti gli alchimisti.
    Lo aveva promesso, aveva promesso di sterminare la loro razza.
    L’uomo tolse i pezzi dalla scacchiera e lasciò solamente la Donna, la Regina Bianca. Liza.
    L’avrebbe uccisa e con le proprie mani. Anche se il rogo sarebbe stato più adatto per lei.
    «Ah, maledetta», mormorò.
    In un impeto d’ira scaraventò a terra il pezzo degli scacchi.
    L’alano alzò la testa.

    L’alano si sottrasse alle carezze del padrone, alzò la testa, fiutò l’aria e ringhiò.
    L’alchimista smise improvvisamente di leggere. Era allarmato. Il cane continuava a ringhiare verso un punto della stanza dove non c’era assolutamente niente.
    «Sei qui?», mormorò.
    Non ci fu nessuna risposta. Il cane si lanciò, le fauci spalancate, pronto a mordere e azzannare. Fu respinto da una forza invisibile, slittò sul dorso contro il freddo pavimento e sbatté contro la parete. Si rialzò lestamente e si mise ad abbaiare freneticamente.
    L’uomo aveva capito.
    «Sei qui? Sei tu, Liza, maledetta?», urlò.
    Si alzò e corse a premere il pulsante per chiamare le guardie della sicurezza. Perché non erano intervenute?
    Il cane si lanciò nuovamente in un selvaggio attacco. Fu afferrato da mani invisibili. Roteò in aria un paio di volte e poi fu lanciato, come un peso leggero, contro la finestra. I vetri si ruppero all’impatto. Il cane precipitò dal quinto piano, guaendo.
    L’uomo fu afferrato un secondo dopo, trascinato verso il centro della stanza, bloccato a terra. Qualcosa si poggiò sul suo petto, all’altezza del cuore. Il respiro gli si fece affannoso, sussultò. Il ritmo cardiaco aumentò.
    Erano tamburi che battevano nel suo petto. Agitò le mani spasmodicamente, poi si afflosciò inerte.
    La porta si spalancò di colpo e due uomini armati di mitra irruppero nella stanza.
    «Ma cosa è stato ...», mormorò uno dei due. Volse lo sguardo ad ogni angolo della stanza. Ma non c’era niente. Il corpo del capo giaceva esamine a terra. Era morto. E il cane, dov’era il cane?
    «Spara», urlò all’altro uomo cominciando a sparare raffiche all’impazzata. L’altro uomo non capì, ma l’affiancò e insieme, spalla a spalla, seguitarono a sparare.
    Finirono i caricatori. Niente si muoveva in quel disastro di mobili sforacchiati e fracassati. I muri presentavano curiosi arabeschi. Niente si muoveva, non si avvertiva nessun rumore, nessun fruscio.
    Uno dei due uomini fu afferrato e lanciato verso il soffitto. Cadde sulla schiena e con la testa fracassata.
    L’altro uomo, folle di paura, arretrò verso la porta, cercando di inserire un nuovo caricatore nel mitra. Ma l’arma gli fu strappata di mano e gettata lontano, poi fu afferrato e sbattuto contro il muro. Non svenne, scivolò a terra, si mise in ginocchio, blaterando parole incomprensibili.
    Una piccola sfera argentea scivolò sul pavimento, piccola e splendente, rotolò, rotolò. L’uomo la seguì con lo sguardo affascinato.
    La sfera colpì una parete e si arrestò. Ci fu una piccola esplosione ed apparve una luce splendente, un piccolo sole si innalzò verso l’alto, poi lingue di fuoco si staccarono, mordendo i mobili, i muri, divorando tutto in pochi secondi.
    La stanza fu avvolta rapidamente da fumo e da fiamme.


    Il castello era una vera fortezza. Maestoso ed inattaccabile. Da lontano, sopra una collinetta, Liza, osservandolo con un potente binocolo, ne studiò le difese. Le quattro torri erano presidiate da uomini armati. Tutti i muri di cinta dovevano avere dei sofisticati sistemi di antintrusione. All’interno, altri uomini ben armati.
    Ma mille uomini armati non avrebbero fermato Liza, il suo proposito di vendetta. Uno dei suoi più pericolosi nemici viveva in quel castello. Vi si era asserragliato e rintanato, furente dopo l’uccisione del suo discepolo prediletto. L’anziano alchimista aspettava. Sapeva che Liza sarebbe venuta per completare la sua vendetta. Ma non la temeva. Ed era pronto ad accoglierla, ad ucciderla.
    Il castello era inattaccabile e ben presidiato. Ma tutto era stato predisposto per un attacco convenzionale.

    La piccola sfera argentea rotolò lungo la collinetta, percorse i metri che la separavano dal castello, scivolò lungo il fossato spinta da una forza misteriosa. Le spesse mura del castello non arrestarono la sua corsa. Perforò facilmente la pietra lasciandosi alle spalle un minuscolo tunnel.
    La sfera si arrestò all’interno del cortile.
    Liza, adesso, era dentro il castello. Era stato facile. Niente l’avrebbe fermata.
    Salì le scale esterne e giunse in un grande salone dove uomini armati di spada la fronteggiarono.
    «Non uscirai viva da qui», disse spavaldamente uno di loro.
    Cominciarono ad agitare destramente le spade e ad avvici-narsi. Le furono addosso, contemporaneamente. Liza schivò, spostandosi abilmente, alcuni colpi di spada. Con un calcio abbatté uno degli uomini. Il gruppo si scompose un attimo e poi si riformò. Spade roteanti brillarono. Vicine, troppo vicine. La circondarono.
    Liza lanciò due piccole sfere. Le sfere rotolarono a terra, argentee e fredde. La prima si fermò davanti al gruppo che accerchiava Liza; l’altra si pose alle loro spalle. Liza schivò un altro colpo di spada. Colpì alcuni uomini.
    Diede l’ordine alle sfere. Due piccoli soli splendenti si accesero contemporaneamente. Gli uomini restarono abbagliati dalla luce. Cercarono di ritrarsi. Ma dalle sfere si sprigionarono le fiamme. Gli uomini furono avvolti dal fuoco senza nessuna via di scampo. Liza attese. Poi scavalcò quello che restava di quegli uomini. Salì per la scala interna. Alle sue spalle arrivarono altri uomini. Tutto l’esercito dell’alchimista si stava schierando a sua difesa.
    Liza lanciò un mucchio di piccole sfere argentee lungo la scala, alle sue spalle. Rotolarono veloci. Avrebbero fatto il loro dovere.
    Salì ancora. Percorse un lungo corridoio. Si fermò davanti ad una grande porta massiccia. Capì d’essere arrivata.
    Alle sue spalle sentì delle grida strazianti. Le sfere si erano messe al lavoro, senza pietà, senza tregua. Avrebbero eliminato tutti quegli uomini. Non doveva più temere attacchi alle spalle. Nessuno, di quegli uomini armati, sarebbe rimasto in vita.
    Spalancò la porta con decisione. Era lo studio. L’anziano alchimista era seduto alla scrivania e l’attendeva. Nessun timore traspariva dal suo volto.
    «Ecco la vendicatrice», disse l’uomo e rise. «Ti aspettavo, Liza, mia cara ragazza, mia cara discepola».
    Liza entrò e richiuse la porta.
    «I tuoi uomini sono tutti morti. Adesso sei senza difesa», gli disse.
    L’uomo rise di nuovo.
    «Non ho mai contato sui miei uomini», rispose beffardo. «Non ho bisogno di aiuto per sconfiggerti. Non riuscirai mai a debellare la nostra organizzazione».
    Liza avanzò di qualche passo ma poi urtò un ostacolo invisibile.
    «È una speciale barriera composta da plasma. Non lo puoi attraversare neanche tu», spiegò l’alchimista.
    Liza controllò la barriera passandoci le mani. Sembrava vetro, straordinariamente trasparente. Solida, senza fessure, senza aperture né crepe. Impossibile entrare.
    Si distese a terra e poggiò le spalle alla parete di plasma.
    «Ti sei arresa! Voglio assaporare questo momento, prolungarlo il più possibile. Ti sei arresa e per me questo rappresenta una strabiliante vittoria».
    Liza lo guardò con occhi di fuoco, furente. Quell’essere meschino e senza dio non aveva capito niente. Le sue ricerche e i suoi esperimenti lo avevano reso folle. Avido, meschino e folle. Meritava il rogo.
    «Dove si nasconde tuo padre? Nessuno crede alla sua morte accidentale. Dove si nasconde? Perché ha inviato te?», chiese l’uomo con rabbia.
    Liza non rispose. Suo padre era un grande uomo, un grande ricercatore. Avrebbe fatto un grande dono all’umanità.
    «Tu non sai quanto odio ho verso di te e tuo padre. Mi dirai dove si nasconde e lo ucciderò. Nessuna traccia resterà di lui. Nessuna».
    «Ricordi il libro La porta aperta del palazzo chiuso del Re di Ireneo Filalete?» (1), chiese tranquilla Liza.
    «L’ho letto e studiato, ovviamente. Non contiene nessun segreto, nessun vero esperimento e lo sai anche tu».
    «Io mi riferivo al titolo non al testo, non agli esperimenti. In un palazzo chiuso c’è sempre una porta aperta, lo hai dimenticato?».
    Per un attimo l’uomo ebbe una esitazione, un brivido di paura. Poi rise.
    «È uno dei tuoi soliti trucchi. Cosa speri di ottenere? Non c’è nessuna porta in questo involucro speciale. Nessuna porta lasciata aperta. Nessuna crepa nell’involucro. Non potrai mai entrare».
    «Non ho bisogno di entrare. Io sono già dentro», rispose Liza tranquilla.
    L’uomo si alzò sbigottito. Si guardò attorno. Non c’era niente. Era solo. Un trucco, un estremo bluff.
    «Le tue maledette sfere non possono attraversare questa barriera».
    «Io sono già dentro, con te», ripeté Liza.
    Dai capelli dell’uomo si straccò una sfera di pochi micron di diametro. Era stata sempre lì, invisibile, vigile e in attesa. Impossibile scoprirla, eliminarla. La sfera si ingrandì fino a raggiungere il diametro di due centimetri. Poi si allontanò un metro dall’uomo e restò a mezz’aria, in attesa.
    «Sono sempre stata con te. Non ti ho mai lasciato. Io ti uccido in nome dell’umanità. Con te elimino un altro rappresentante di una razza egoista e senza dio. Il rogo sarà la tua punizione».
    Sotto gli occhi atterriti dell’alchimista decine di sfere argentee si staccarono e rotolarono a terra. Rotolarono veloci verso l’uomo, lo raggiunsero, salirono sul suo corpo. L’uomo tentò invano di strapparsele di dosso. Liza diede l’ordine. Piccoli soli si accesero. Alte fiamme. L’alchimista barcollò, agitò le braccia in gesti scomposti, si contorse, cercò di fuggire, percorse pochi passi, urlando cadde al suolo, si rotolò negli spasmi del dolore atroce. Poi tutto finì. Il corpo smise di contorcersi.
    Le sfere continuarono a bruciare. Liza aspettò fino a quando quell’uomo potente non venne ridotto ad un mucchio di ossa carbonizzate.
    Liza aprì la porta. Indisturbata scavalcò mucchi di cadaveri carbonizzati, scese nel cortile. Manovrò l’apertura del grande portone, fece scendere l’antico ponte levatoio. Lo attraversò, uscì dal castello.
    Alle sue spalle, senza nessuna esplosione, il castello si afflosciò come un vecchio e malridotto cartone.

Nota:
1) Ireneo Filalete, alchimista del XVII secolo, autore del celebre Entrata aperta del palazzo chiuso del Re.



Dal capitolo CALCINAZIONE
Esperimento di trasmutazione del piombo in oro trasmesso in diretta, per la prima volta in assoluto, da un laboratorio alchemico:

    Quando si accendono le luci - un effetto ben studiato - dal buio emerge il laboratorio.
    «Benvenuti alla prima puntata di “L’alchimia rivelata”», esordisce Vouet.
    È al centro del laboratorio. Alle sue spalle una giovane donna con una maschera sul volto. È vestita normalmente con jeans e maglietta a maniche corte. Non veste panni di sacerdotessa e non indossa nessun paramento particolare. Sembra una semplice valletta pronta a passare la cartelletta al presentatore. Ma non sarà così.
    «Questo laboratorio è stato ricavato facendo abbattere la parete divisoria di due camere contigue», continua Vouet. «Osservate il forno alchemico. È un progetto straordinario, copia fedele di quello descritto in un antichissimo manoscritto arabo. Tre torri circolari in pietra sono state innestate su una costruzione a base rettangolare. Le torri raggiungono il soffitto e funzionano da gole del forno. La base, sempre in pietra, presenta, sul prospetto e sui due lati, piccole e grandi feritoie, di diversa misura e forma, chiuse da sportelli in ferro. Il costruttore non si è fermato solo alla spettacolarità architettonica dell’antico disegno, ma vi ha apportato dei funzionali accorgimenti tecnici. Il segreto del forno sta al suo interno, nelle camere di fusione, nello stretto collegamento dell’intrico dei canali. Per capirlo interamente si dovrebbe smontarlo pezzo per pezzo o studiare il progetto costruttivo. Accostati ai muri, potete vedere dei moderni scaffali a vetri che racchiudono strumenti di lavoro; in altri sono riposti ordinati contenitori di vetro etichettati. Un grande tavolo centrale, di legno massiccio e ricoperto da un panno rosso, è ingombro di mortai, bilance, crogioli di diversa misura, storte e alambicchi. Tutti strumenti che servono all’alchimista. Altri tavoli, più piccoli, vengono utilizzati come piani di lavoro. È la prima volta che le telecamere entrano in un laboratorio d’alchimia. Non è stato facile, credetemi. Ogni alchimista è geloso del proprio laboratorio, del proprio Tempio».
    La telecamera stacca da Vouet e si aggira, per lunghi minuti, a curiosare attentamente fra i tavoli, tra le diverse apparecchiature. La donna, alle spalle di Vouet, resta muta e immobile.
    Vouet continua:
     «Ogni intrusione nel Tempio è considerata un’infamia. Ed è un’infamia ancora più grave lasciar usare da estranei le proprie preziose attrezzature. Ringrazio il mio fratello alchimista che mi ha dato il suo generoso consenso. Ma è arrivato il momento di cominciare l’esperimento. La ragazza eseguirà, sotto le mie precise direttive, determinate operazioni».
    La ragazza sceglie un crogiolo con esagerata attenzione, voltandolo e rivoltandolo fra le mani, studiandone peso e misura. Con mani abili e abituate vi applica una speciale pinza. Dagli scaffali sceglie degli stampi e due barre di piombo. Poggia gli stampi sul tavolo centrale e comincia a rivestire le barre di piombo con cera gialla. Lavora con cura e destrezza, aggiungendo e togliendo la cera fino a raggiungere lo spessore desiderato. Poi poggia le due barre sul piatto della bilancia di precisione e pesa accuratamente, aggiungendo dello zolfo in grani. Si accosta al forno già acceso, riscalda leggermente il crogiolo e poi vi sistema il piombo e lo zolfo.
    «Bisogna attendere che il piombo cominci a fondere», spiega Vouet.
    Un quarto d’ora di attesa e poi la ragazza estrae dalla tasca una piccola busta.
    «La busta contiene un elemento prezioso», spiega Vouet. «È quella che chiamiamo polvere di proiezione. Senza questa polvere tutta l’operazione sarebbe solo una ridicola messinscena. Questa polvere si ottiene solo dopo anni di lavoro incessante, di attesa e di sacrifici. Per questa polvere qualcuno, credetemi sulla parola, arriverebbe anche ad uccidere».
    La ragazza versa un poco della polvere nel crogiolo, lo agita parecchie volte servendosi delle pinze e inizia a mescolare con una lunga bacchetta di ferro. Poi, afferrando con abilità la pinza, prende il crogiolo e versa il contenuto negli stampi.
    Vouet si avvicina al grande tavolo e indica gli stampi.
    «Li dobbiamo lasciar raffreddare».
    Passano parecchi minuti. Poi Vouet apre gli stampi e mostra una delle due barre alla telecamera. È oro quello che è stato ottenuto, non vi sono dubbi. Non vi è più nessuna traccia del piombo. La trasmutazione è avvenuta in diretta.
    Vouet invita un esperto - un noto orafo - ad effettuare un accurato controllo sull’oro per confermare la veridicità dell’ esperimento. L’esperto effettua delle verifiche e conferma. L’operazione è perfettamente riuscita. Le due barre d’oro brillano sul tavolo illuminate dai riflettori.
    Vouet non lascia trasparire nessun entusiasmo. Prende la barra d’oro che l’esperto ha analizzato e la mostra alla telecamera.
    «È oro», dice con voce perfettamente controllata e tranquilla. «È oro quello che abbiamo ottenuto. Peso e valore non interessano. Gli alchimisti sanno bene che la fabbricazione dell’oro - la trasmutazione del metallo vile in metallo nobile - è un’operazione marginale in tutta la ricerca alchemica. L’importante è ottenere la polvere di proiezione, il forte catalizzatore che permette di spingersi ancora più oltre. Non è la ricchezza a cui tendiamo noi alchimisti, credetemi, ma la possibilità di spingerci oltre. A questo primo esperimento ne seguiranno, ben presto, molti altri più complessi e sorprendenti. La trasmissione di stasera è una straordinaria vittoria sulla incredulità dell’arrogante scienza ufficiale che ha sempre relegato nell’ombra e nell’oscurità gli alchimisti. Ma è una verità che può essere rivelata e diffusa?
    Vouet si avvicina alla telecamera. Vuole che il suo viso sia in primo piano.
    «Zosimo definiva gli alchimisti come una razza autonoma, immateriale e senza re. (1) Gli alchimisti non hanno Patria. Il loro dio è l’egoismo. Mai nessun alchimista ha donato all’umanità nessuna delle sue presunte ed importanti scoperte. È questo spietato egoismo che non tollero, questa mancanza di senso del dovere verso l’umanità, questa meschinità e bassezza. Confondono Oratorio e Laboratorio, preghiera e sperimentazione. Li hanno sempre confusi. Il loro dio è personale. “Donare per essere” per loro non ha nessun senso e nessun valore. Non accetto questa Filosofia egoista e spietata. Nessun alchimista ha mai donato qualcosa all’umanità. Ebbene, io voglio farlo. Voglio fare un grande dono all’umanità rivelando l’obiettivo ultimo dell’alchimia. Quello che esiste oltre la fabbricazione dell’oro. Basta con le tenebre e l’oscurità».
    Nel laboratorio le luci si affievoliscono. L’atmosfera diventa irreale. Le parole di Vouet “Basta con le tenebre e l’oscurità” aleggiano ancora nell’aria, sospese, come un monito e, forse, come una speranza.
    Poi le luci si spengono e il laboratorio piomba nel buio più totale. In quel buio Vouet ripete le parole: “Basta con le tenebre e l’oscurità”.
    La trasmissione finisce. Ma un cartello annuncia la tematica della puntata successiva: “Le Nozze Chimiche”.

Nota:
1) Citato da M. Berthelot, Collection des anciens alchimistes grecs, Paris, Steinheil, 1888. (Leur génération est dépourvue de roi, autonome, immatérielle; elle ne recherche rien des corps matériels et corruptibles).

26/11/2015 [Tratto da "L'anelito alchemico" Youcanprint Edizioni 2015]

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